La vicenda (certo poco commendevole, se si esclude la conclusione) che ha condotto alla rielezione di Sergio Mattarella alla presidenza della Repubblica può suggerire considerazioni di vario genere e su vari piani: politico, istituzionale, culturale, etico (sì, anche etico!). Alle molte riflessioni fatte in questi giorni da commentatori autorevoli e competenti nel tentativo di spiegare e/o interpretare a beneficio dei più quanto avvenuto o allo scopo di suggerire interventi di “ingegneria costituzionale”, consentitemi, non essendo io un politologo, di aggiungerne tre assai semplici e forse non particolarmente originali, esprimendo il punto di vista di un cittadino comune, sensibile però alle questioni legate al comportamento (tale è il significato della parola “etica”) e alla polis (che rimanda al fondamento della parola “politica”) di quanti si occupano di quest’ultima.
La prima riguarda appunto l’esito di questa vicenda, del quale si deve a buon diritto essere soddisfatti, avendo premiato un autentico galantuomo, preparato e con un profondo senso delle istituzioni, e che ha dato in questi anni uno straordinario esempio di moderazione ed equilibrio, di spirito di servizio e di attenzione al bene comune, ossia di quegli “ingredienti” che da sempre (ne parlava già il “laico” Aristotele nella Politica) costituiscono il fulcro dell’agire politico. E forse non è casuale che un qualche ruolo in tale esito l’abbia avuto la parte più moderata (e più ampia, per fortuna) del nostro Parlamento che, riscoprendo la propria autonomia e il senso delle proprie funzioni, ha al tempo stesso riabilitato la “centralità” del centro, inteso come spazio in cui è possibile avviare un confronto e un dibattito seri e dare origine di conseguenza a proposte e pratiche assennate.
La seconda riflessione riguarda il fallimento di qualsiasi politica fondata sugli annunci a effetto, tanto altisonanti quanto vuoti, priva di qualsiasi strategia che non sia quella di “colpire la platea”, e motivata esclusivamente dalla smania di protagonismo e dall’antagonismo nei confronti soprattutto dei cosiddetti alleati. È curioso, sotto questo aspetto, che si parli oggi di scomparsa della coalizione di centro-destra, quasi che fosse stata la elezione del Presidente della Repubblica a provocarla (e non semplicemente a metterla a nudo). Ma non meglio messa appare anche una politica che nasconda la propria totale confusione di idee e l’assenza di un progetto realmente comune sotto nobili “etichette” e che, senza fare veramente chiarezza su chi si è e su ciò che si vuole fare (tanto da lasciare spazio al proprio interno a personaggi di dubbia trasparenza o pronti a saltare sul cavallo ritenuto vincente), sembra identificare il proprio successo col mero insuccesso dell’avversario.
In sintesi, ed è la terza e ultima riflessione, per fare una “buona” politica non è comunque sufficiente possedere una “buona” preparazione, né farsi paladini di irrinunciabili valori, né richiamarsi a forti idealità, né sono sufficienti meri “correttivi al sistema”. Se politica è il tentativo di costruire un percorso comune con altri, spesso portatori di idee differenti dalle proprie, e di raggiungere quindi con loro obiettivi condivisi, essa non può farsi senza la capacità di dialogare con pazienza, tenacia e disponibilità a fare qualche “passo indietro”, senza di cui pare arduo dare vita a quella che ancora Aristotele chiamava «amicizia politica», ossia alla concordia, la quale, come egli ricorda (Etica Nicomachea 9, 6), non consiste nella identità delle opinioni ma nella unione delle volontà.