Tripoli, 6 aprile 2021, il premier italiano Mario Draghi si sente di esprimere pubblicamente «soddisfazione per quello che fa per i salvataggi la Libia, che aiutiamo e assistiamo». Lo fa nella conferenza stampa a seguito dell’incontro con il nuovo primo ministro libico Abdul Hamid Dbeibah, che si tiene non molto lontano da uno dei campi di detenzione che le Nazioni Unite e altre organizzazioni internazionali definiscono da tempo dei veri e propri lager.

È proprio di quelle strutture che il paese nordafricano si serve per “contenere” (imprigionare) non si sa quante migliaia di migranti, compresi quelli salvati nel Mediterraneo dalla propria guardia costiera. Tutti sanno dell’esistenza di quei luoghi, molti, compreso il Presidente del Consiglio, hanno chiaro il sistematico e brutale disconoscimento di ogni “diritto umano” che quotidianamente accade in Libia, con la compiacenza delle rispettabili potenze europee: si è di fronte a un autentico circuito necropolitico1-economico che ruota attorno alla mercificazione di uomini e donne e della loro disperazione, nel quale il campo, quella struttura politico-giuridica tanto paradigmatica nella modernità che Giorgio Agamben ha definito, con evidente ragione, «la matrice nascosta della politica in cui ancora viviamo»2, svolge un ruolo cruciale nella produzione di tale merce. Per avere esseri umani da inserire con successo in un profittevole traffico fatto di schiavitù, aste, riscatti, tragiche traversate, occorre necessariamente operare uno smantellamento della loro soggettività, un processo di radicale de-umanizzazione che non può che passare per sequestri, lunghe detenzioni in condizioni di denutrizione e sovraffollamento, torture, abusi, terrore, in una parola: violenza.

Noi, italiani, europei, dobbiamo fare i conti, soprattutto in quanto comunità, con questa violenza, con la nostra responsabilità morale e politica nei suoi confronti, con i nostri fantasmi di cui essa si alimenta e che da essa sono alimentati. Quel che accade è tipicamente, viceversa, una rimozione totale, individuale e collettiva: se l’orrore, passato e presente, è indicibile allora non diciamolo, se quella sofferenza è impensabile o sconveniente allora facciamo finta che non avvenga.

Le politiche migratorie italiane degli ultimi vent’anni, dalla Bossi-Fini ai Decreti Sicurezza, passando per il democratico Minniti e il celebre Memorandum d’Intesa con la Libia, firmato nel 2017 e rinnovato nel 2020, in merito alle quali la soddisfazione dell’attuale premier non lascia intendere decisivi cambi di rotta, vanno esattamente in questa direzione: l’obiettivo ultimo è quello di prevenire gli sbarchi, “bloccare i flussi” e, incidentalmente, per alcuni, evitare qualche morto in mare; tutto quello che avviene dall’altra parte del Mediterraneo non ci riguarda se non marginalmente e, se è utile a frenare i viaggi verso l’Europa, è, più o meno a denti stretti, ben accetto. È questa la sola logica per cui è possibile esternalizzare le frontiere, finanziare le oscure autorità libiche a cui è delegato il soccorso in mare, operare respingimenti, criminalizzare i migranti e coloro che operano al di fuori di questo sistema istituzionalizzato.

In carico ai sistemi di informazione è il resto del lavoro per impedirci di dover realmente vedere la violenza: mostrarci periodicamente i dati che ci raccontano oggettivamente della diminuzione degli sbarchi e, con essi, dei morti, con cui misurare i successi politici, esultare a ogni revisione minima degli accordi internazionali, rilanciare il sentimento di trovarsi di continuo di fronte a un’emergenza capace di giustificare ogni stato di eccezione, imporci un disincantato dispiacere di fronte al naufragio di turno, ora una tragica fatalità che poteva essere evitata se solo quel viaggio non fosse mai avvenuto, ora disastri derubricati «come se fossero fenomeni naturali, atmosferici»3. Occorre che ogni reazione, ogni posizione che sia possibile assumere, sia già decisa in anticipo in categorie facilmente individuabili e definite, nelle quali far confluire ogni eventuale devianza e sulle quali far giocare il conflitto d’opinione: i razzisti e le anime belle, gli idealisti e i pragmatici.

Quel che conta è appunto non dover vedere, perché tale gesto, intimamente politico, schiuderebbe l’abisso della domanda e ci porrebbe di fronte alla necessità di agire, e di farlo alle fondamenta di quel circuito dell’orrore, mettendoci, perlomeno, profondamente in discussione.

Draghi stesso, e con lui chi sostiene che la sua dichiarata soddisfazione non possa e non debba scandalizzare, si appella alla virtù del realismo politico: in quell’incontro si è parlato di affari, di relazioni commerciali, di infrastrutture, di petrolio e di gas, oltre che di gestione dell’immigrazione, non si può fare a meno di collaborare con la Libia, territorio cruciale che non a caso si trova al centro di mire turche e russe.

Era insomma solo una battuta richiesta dalla parte interpretata nella messinscena diplomatica. Ma la violenza non è finzione, non è spettacolo, per quanto ci sforziamo di non vederla essa agisce quotidianamente sui corpi e sulle vite di un numero indefinito di uomini e donne, peraltro non molto distante da noi. Si può, parafrasando Mark Fisher4 in dialogo con Achille Mbembe, parlare di un vero e proprio realismo necropolitico: non c’è alternativa alla violenza, alla morte sistematica, all’alternativa diabolica tra detenzione e naufragi, allo spazio eccezionale di sofferenza dei campi e delle frontiere e, se esiste, non è praticabile, non nell’immediato. Ciò che è reale (o la parte di reale presa per il tutto) è necessario, l’immaginario si satura, l’orizzonte del pensabile e del possibile si restringe fino a soffocarci, mentre noi cessiamo di accorgercene.

Note

1 “Necropolitica” è una categoria ideata dal filosofo camerunese Achille Mbembe per indicare un paradigma del potere fondato sulla «capacità di decidere chi può vivere e chi deve morire» e di ridurre intere popolazioni «a condizioni di vita che equivalgono a collocarle in una condizione di “morte in vita”». Cfr. A. Mbembe, Necropolitica, Verona, Ombre Corte, 2016.

2 G. Agamben, Homo sacer, Einaudi, Torino, 2005 e G. Agamben, “Che cos’è un campo” in Mezzi senza fine, Torino, Bollati Borlinghieri, 2005.

3 G. Civati, Voi sapete. L’indifferenza uccide, Milano, La nave di Teseo, 2018.

4 Cfr. M. Fisher, Realismo Capitalista, Roma, NERO, 2018.

Bibliografia e approfondimenti

  • Agamben, G., Homo sacer, Einaudi, Torino, 2005
  • Agamben, G., “Che cos’è un campo” in Mezzi senza fine, Torino, Bollati Borlinghieri, 2005
  • Civati, G., Voi sapete. L’indifferenza uccide, Milano, La nave di Teseo, 2018
  • Fisher, M., Realismo Capitalista, Roma, NERO, 2018
  • Mbembe, A., Necropolitica, Verona, Ombre Corte, 2016

Le dichiarazioni di Mario Draghi:

Le denunce dell’ONU:

Sul mercato degli uomini in Libia e sulle condizioni nei campi di detenzione:

Sul ruolo geopolitico della Libia

Sugli accordi e i rapporti commerciali tra Italia e Libia:

Autore