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Riportiamo dalla rivista Aggiornamenti Sociali un interessante editoriale di Giacomo Costa relativo alle prossime elezioni (qui l’originale)


Votare sì, ma come? L’editoriale propone un percorso attraverso le emozioni e i sentimenti suscitati dalla campagna elettorale, con uno sguardo che abbracci passato e futuro per superare le tentazioni di fanatismo, abitudine e astensione e affrontare il diritto-dovere al voto in maniera costruttiva.

Votare o non votare? E se sì, per chi? Sono le domande di ogni tornata elettorale, ma in queste settimane provocano uno smarrimento maggiore: l’impressione è che stiamo assistendo alla campagna più rumorosa e al tempo stesso più vuota di contenuti della storia della Repubblica, dove ogni affermazione risponde soprattutto alla ricerca dell’effetto annuncio. Queste pagine non cercheranno di semplificarvi la vita, offrendo indicazioni di voto. Proverò invece a indicare un percorso attraverso cui recuperare elementi per arrivare a una maggiore chiarezza. L’invito, rivolto a tutti – ma in particolare agli indecisi e a quanti sono intenzionati ad astenersi – è a ritagliarvi un tempo congruo per misurarvi concretamente con la responsabilità di cittadini anche attraverso l’esercizio del diritto-dovere di votare. Vi propongo un esercizio personale, che mette in gioco emozioni, memoria e sguardo al futuro. Un esercizio che ciascuno è chiamato a fare con la propria coscienza, ma che è anche collettivo e richiede il confronto con le coscienze degli altri. Non può essere delegato e nessuno può farlo al posto di un altro.

Emozioni e sentimenti

Tutti si aspettano di vedere crescere il numero degli astenuti: visto il clima generale nei confronti della politica, non solo in Italia, non è una difficile previsione. Non mancano però nemmeno quelli che sono sensibili al fascino delle proposte di partiti e movimenti, sostenitori a prova di fake news, nonostante e malgrado tutto. In mezzo, infinite sfumature, dubbi e andirivieni, accompagnati da emozioni diverse, talora in contrasto, alcune spiacevoli o sgradevoli, con cui è indispensabile fare i conti, lasciandole emergerle prima di giudicarle o rimuoverle: sono risorse motivazionali individuali e sociali cui attingere, a condizione di assumerle con intelligenza critica, che non è sinonimo di razionalizzazione. Senza fuggire dall’emotività, né lasciarvene dominare, la prima tappa dell’esercizio consiste nel rileggerla per scoprire quali tratti coglie della realtà in cui vivete e come trasformarla in risorsa, anche in vista della decisione sul voto.

Inizio passando in rassegna alcuni dei sentimenti che ci accompagnano in questo tempo. Il primo è probabilmente l’indifferenza: quella cronica di chi è interessato solo al proprio privato; quella di chi fatica a percepire la rilevanza della posta in gioco, visto che sempre di più le questioni cruciali si decidono fuori dal Parlamento; quella di chi non segue la politica e non si sente competente a prendere una decisione, arrivando magari a considerare l’astensione come una scelta di onestà. Ma c’è anche una indifferenza che non si astiene, quella di coloro che votano per abitudine o inerzia sempre lo stesso partito (o un suo succedaneo): se questo poteva funzionare nella politica del Novecento, quando i partiti mantenevano un ancoraggio almeno di facciata a un’ideologia, nel contesto attuale non sembra avere molto più senso.

Altrettanto diffusi sono confusione e incertezza, complici anche alcune peculiarità dell’attuale congiuntura, dal tramonto del bipolarismo a una legge elettorale mai sperimentata (cfr l’articolo di G. Riggio alle pp. 102-111 di questo numero). Verosimilmente dalle urne non uscirà un vincitore con numeri che gli permettano di governare da subito. Si modificheranno schieramenti e alleanze dopo il voto? In modo coerente con la volontà degli elettori? Anche esaminando i programmi risulta difficile capire per che cosa si vota: le proposte di partiti e movimenti sono modellate a misura di sondaggio per “catturare” voti, senza preoccuparsi di coerenza o fattibilità. È uno degli effetti della politica post-verità (cfr l’editoriale di febbraio 2017 «Orientarsi nell’era della post-verità», alle pp. 93-100).

Circolano poi tanta rabbia e tanto disgusto, che possono derivare dal sentirsi dimenticati dalle istituzioni anziché tutelati: sono sentimenti da interrogare, cercando di valutare la fondatezza della pretesa o aspettativa che si ritiene frustrata. Un capitolo a parte sono le reazioni al malaffare e ai crimini commessi dai politici: l’astensione è spesso vissuta come un modo per non sporcarsi la coscienza e non sentirsi complici. Ma c’è rabbia anche in molti militanti di movimenti “dirompenti” anti-casta, anti-sistema, magari accompagnata da una fiducia cieca che porta a usare pesi e misure diverse per i propri beniamini e per tutti gli altri, perché in qualcuno bisogna pur credere. Raffreddandosi, frequentemente la rabbia diventa delusione: che senso ha – si dice – votare per un partito che comunque non ci rappresenta?

Nonostante tutto – abbiamo il dovere di riconoscerlo – non manca nemmeno la trepidazione, quel sussulto di speranza che ci assale quando all’orizzonte compare qualcosa o qualcuno di nuovo: «Sarà la volta buona? Sarà quello giusto per uscire dalla palude?». La speranza del bene non muore, e questa è una risorsa; il problema è quando si declina in un’attesa messianica, che collude con la personalizzazione e il leaderismo della nostra politica, senza diventare generatrice di impegno.

Dove eravamo cinque anni fa?

Emozioni e sentimenti si presentano con la caratteristica dell’immediatezza, ma interpretarli e valorizzarli richiede di vedere come si distendono nel tempo, da dove traggono origine e verso quale orizzonte è rivolta la loro energia. Come ricordava il Presidente della Repubblica nel Messaggio di fine anno: «Non possiamo vivere nella trappola di un eterno presente, quasi in una sospensione del tempo, che ignora il passato e oscura l’avvenire, così deformando il rapporto con la realtà. La democrazia vive di impegno nel presente, ma si alimenta di memoria e di visione del futuro». L’incapacità di rileggere il passato e guardare al futuro si riflette in un impoverimento del presente, sminuendo progettualità, iniziativa e capacità di intervento. I passi successivi dell’esercizio che vi propongo richiedono investire un tempo adeguato per guardare indietro e avanti.

Cominciamo ripercorrendo l’ultima legislatura: farlo vi potrà aiutare ad andare verso la radice di molte emozioni e sentimenti e a mettere a fuoco quale “gusto” avete sentito nelle diverse occasioni e perché lo avete provato, dove avete sperimentato la partecipazione a un processo indirizzato al bene comune e dove invece la divisione e la chiusura, se non la negazione del legame che unisce tutti i cittadini.

L’Italia che arrivava alle elezioni del 2013 si stava avvitando in una spirale di paralisi, con la crisi del Governo Berlusconi e il ricorso a quello “tecnico” di Mario Monti; le infinite proposte di riforme mai realizzate segnalavano una paralisi istituzionale, mentre anche il sistema economico appariva bloccato, incapace di innovarsi a difesa della propria competitività. I risultati delle elezioni furono uno choc: il Paese si ritrovò senza quella maggioranza parlamentare a cui era abituato. Il Governo delle larghe intese di Enrico Letta, che vedeva fianco a fianco gli schieramenti che si erano avversati nei vent’anni precedenti, così come la rielezione del presidente Napolitano, 87enne, furono una sorta di ultima spiaggia: un aiuto per uscire dall’impasse, ma innegabilmente anche icone dello stallo del Paese.

Prima e dopo le elezioni sono cresciute le voci di chi individua la soluzione nel fare piazza pulita di qualunque retaggio del passato. Si tratta di un’istanza che almeno una parte del “grillismo” ha rappresentato. Ma slogan simili circolavano anche in altri partiti, pur con forme, intensità, modalità assai diverse: nel PD, ad esempio, con la retorica della “rottamazione”, scelta da Matteo Renzi come cifra della sua ascesa, che con un po’ di nostalgia di tanto in tanto ancora torna a galla; oppure, con cadenze più dialettali, nei discorsi della Lega, impegnata nel frattempo in una sorta di “epurazione” della propria dirigenza, con l’affermazione progressiva dell’attuale leader Matteo Salvini. Per molti elettori scontenti, il M5S ha rappresentato la possibilità di esprimere la propria protesta, scompaginando definitivamente l’opposizione destra-sinistra e riportando dentro al gioco politico una parte di coloro che ne erano fuori; senza di loro l’astensionismo sarebbe sicuramente più alto. In questi anni il M5S è cresciuto come forza politica locale e nazionale di massa, al governo di alcune importanti città, e ha dovuto confrontarsi con schemi, riti, dinamiche, lentezze, oscillazioni e vincoli delle istituzioni e della politica, perdendo dei pezzi ed espellendone altri, aprendosi alla possibilità di alleanze e contaminazioni e adattando realisticamente alcune regole interne. Non per niente emergono forze che lo criticano come ormai integrato al sistema e si propongono come alternativa autenticamente radicale.

Il filone della “rottamazione”, in tutte le sue forme e colori, ha dovuto fare i conti con la difficoltà di realizzare una prospettiva di riforma nel nostro Paese, bruciando una quantità enorme di risorse e di capitale politico. Ne è un simbolo il referendum costituzionale del 2016: una riforma attesa da decenni fallisce per il modo con cui è stata portata avanti, per rivendicazioni e rivalità personali, per un Paese scontento e sofferente che non riesce a convogliare le forze in una proposta costruttiva. Tuttavia non si può ridurre la legislatura a un progressivo ritorno alla palude dell’immobilismo politico, istituzionale, economico precedente.

L’Italia di oggi non è quella di cinque anni fa, non solo per una timida ripresa economica, che peraltro, come lo stesso presidente del Consiglio Paolo Gentiloni ha onestamente riconosciuto, è indipendente dalla politica nazionale. Processi di riforma sono stati effettivamente avviati in tanti ambiti: Jobs act, Buona scuola, stabilizzazione dei precari in alcuni settori pubblici, ammortizzatori sociali e contrasto alla povertà, riforma del Terzo settore e delle banche popolari, collegato ambientale, interventi nel delicato e controverso campo dei diritti civili e della bioetica, ecc. Non tutti hanno portato i frutti sperati e non tutti sono condivisibili: vari li abbiamo esaminati su Aggiornamenti Sociali (sull’ultimo in ordine di tempo, quello sul fine vita, cfr l’articolo di C. Casalone alle pp. 112-123 di questo numero), cercando di tracciare un bilancio dei loro punti di forza e di debolezza. Tutti questi interventi sono stati faticosi e controversi anche a causa di particolarismi molto radicati nella nostra società, che non favoriscono un clima di dialogo e una cultura della mediazione. Molti altri non sono riusciti a concludere il loro iter, tra cui la riforma della cittadinanza (il cosiddetto ius soli). Magari non nella direzione in cui si auspicava, ma alcune cose sono cambiate anche grazie alla politica e oggi è più difficile affermare che questa non serve a niente o non conta più niente.

Verso un Paese sostenibile

Non meno importante della rilettura del passato è rivolgere lo sguardo al futuro. Come sottolinea un inedito del filosofo francese Paul Ricoeur, recentemente pubblicato: «a volte l’orizzonte d’attesa si svuota di ogni contenuto, di ogni scopo degno di essere perseguito; così si riscontra un po’ dappertutto il diffondersi della diffidenza nei confronti di ogni previsione a medio termine e a maggior ragione nei confronti di ogni profezia a lungo termine» («Ricoeur: “migranti, Europa ricorda la tua storia”» in Avvenire, 16 gennaio 2018). In assenza di un progetto realizzabile, ci si rifugia in una assolutizzazione dei propri bisogni e vantaggi immediati che distrugge ogni possibilità di riforma. È così opportuno andare al di là delle urgenze urlate della campagna elettorale (peraltro poche e spesso stantie), uscendo dalle secche di una politica di breve o brevissimo termine, per identificare alcuni elementi di questo “orizzonte d’attesa”.

Un nodo che ci permette di sintetizzare molte istanze cruciali, per l’Italia e non solo, è quello della sostenibilità. In questi anni, le pagine di Aggiornamenti Sociali, non solo a partire dallo stimolo della Laudato si’, hanno documentato i guasti di un modello di sviluppo incapace di incrociare le dimensioni economiche, sociali e ambientali, ma anche il diffondersi di un approccio integrale ai problemi. Per il nostro Paese è fondamentale affrontare la questione della sostenibilità a partire dalla prospettiva demografica, “grande assente” dal dibattito pubblico e soprattutto dalla campagna elettorale, forse perché obbliga a guardare lontano.

Per l’Italia declino demografico e invecchiamento della popolazione rappresentano probabilmente il maggiore ostacolo lungo un percorso di crescita sostenibile. Secondo l’Istat, i nuovi nati in Italia nel 2016 sono stati 473.438, circa 12 mila in meno dell’anno precedente e oltre 100mila in meno rispetto al 2008. Oggi la fascia di età più numerosa è quella dei 50enni, venuti al mondo quando le nascite erano circa un milione all’anno (con il picco nel 1964): non riusciamo neppure a immaginare che cosa accadrà quando si ritireranno in massa dal lavoro e saranno interamente “a carico” di un numero di giovani assai più ridotto. Lo stress per il sistema sanitario e di welfare è assicurato, mentre pensioni meno generose limiteranno le possibilità di sostenere l’economia con i consumi. L’invecchiamento della popolazione rallenta il ritmo dell’innovazione e accorcia l’orizzonte collettivo, diminuendo la capacità di adattarsi ai cambiamenti epocali che stiamo vivendo: uno scenario internazionale in cui emergono nuove potenze, le migrazioni di massa, la nuova rivoluzione tecnologica in atto. In questi campi il confronto con Paesi molto più “giovani” del nostro è spesso impietoso. Questo significa che l’Italia avrà sempre meno da dire e da dare al mondo, e anche minori possibilità di essere attraente, e perderà forze brillanti, attratte da luoghi più stimolanti.

Anche il solo approccio demografico alla sostenibilità permette di tenere insieme molte questioni economiche e sociali: welfare, fisco, migranti, lavoro, pensioni, salute, innovazione, ecc. Lo spazio non ci consente analisi più approfondite o incroci con altre prospettive, pur indispensabili, ma è chiaro che i diversi Obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Agenda 2030, approvata dall’ONU nel 2015, andrebbero articolati politicamente rispetto alla situazione italiana ed europea, affrontando questioni come povertà e disuguaglianze, solidarietà e legami sociali, lavoro e industria 4.0, green economy e transizione energetica, cooperazione internazionale e sicurezza. Non sarà possibile affrontare tutto subito e ogni partito e movimento indicherà le sue priorità, ma non ha senso considerarle in modo riduzionistico e non integrato, e senza un orizzonte di medio-lungo termine.

Guardare al futuro ricorda un’altra verità fondamentale: l’avvenire non potrà che essere comune e la sua costruzione passa dal confronto tra le molte differenze che abitano il Paese. Questo vale in modo speciale per la Chiesa italiana e i suoi membri, a cui papa Francesco, in occasione del Convegno ecclesiale di Firenze (10 novembre 2015) ha rivolto due raccomandazioni: «l’inclusione sociale dei poveri, che hanno un posto privilegiato nel popolo di Dio, e la capacità di incontro e di dialogo per favorire l’amicizia sociale nel vostro Paese, cercando il bene comune».

Proprio la profondità dell’orizzonte temporale proposto e la priorità alla coesione della società possono rappresentare un criterio per articolare entusiasmi e resistenze con le capacità concrete delle forze politiche in campo, da valutare sulla base delle poche o tante esperienze di governo ai diversi livelli ben più che sui proclami elettorali. In questa operazione va privilegiato il lungo termine, operando una opzione preferenziale per la speranza. La valutazione realistica della situazione non significa rinunciare a prestare attenzione ai segnali che il cambiamento è possibile, anzi è già cominciato.

Partecipazione politica

Tenere saldamente i piedi per terra senza rinunciare alla passione per il nostro Paese e mettere in gioco tutte le proprie risorse, razionali ed emotive: sono questi i punti dell’esercizio pre-elettorale che vi sto proponendo.

Nella prospettiva che provo a tracciare, l’astensione è una opzione da non ridicolizzare né demonizzare, e non è sempre sinonimo di rinuncia e disimpegno, ma, come ho già sottolineato, oggi
va riconosciuta come una opzione insostenibile, specialmente nel lungo periodo. La sua forza attrattiva va interrogata e ascoltata, e ci invita a renderci conto che la fine delle ideologie ci ha privato di un apparato di controllo degli eletti, obbligando i cittadini ad assumersi la responsabilità di una interazione continua con i propri rappresentanti. Proprio come il consumo critico evidenzia la forza del “voto col portafoglio” come esercizio quotidiano di pressione sulle imprese, abbiamo bisogno di crescere nella capacità propositiva a livello di società civile e nell’esercizio di forme di cittadinanza attiva. La ciclica lamentela sulla decadenza dei costumi senza alcuna attivazione lascerà sempre il tempo che trova.

Il principio di realtà ci spingerà a prendere distanza dalla seduzione di un leader forte, capace di risolvere ogni problema, o di un partito a cui affidare una sorta di delega in bianco onnicomprensiva: una proiezione a scala nazionale dell’immaginario infantile del genitore tanto onnipotente quanto inesistente. La domanda di concretezza che gli elettori esprimono ci condurrà a partire dai bisogni di chi abita il Paese più che dalle ideologie, facendo però attenzione al rischio della chiusura individualistica, che assolutizza il proprio bisogno immediato e ne scambia la frustrazione, magari parziale o provvisoria, con il fallimento del sistema sociale e politico. In chiave sociologica i bisogni restano una fonte di conflitto e di tensione senza fine, anche perché sono illimitati, oltre a prestarsi a essere manipolati in chiave consumistica. A livello di vissuto personale sono fonte di paure e di entusiasmi, per cui dobbiamo imparare a riconoscerli e articolarli. Altrimenti attenzione ai bisogni e concretezza scivoleranno velocemente verso una politica fondata sul puro autointeresse, senza alcuna considerazione per il bene comune. È proprio il principio di realtà a imporre di confrontare l’illimitatezza dei bisogni con la scarsità delle risorse, ponendo la domanda della sostenibilità anche in chiave intergenerazionale. Non si tratta di considerazioni teoriche: alla base di tante politiche dell’amministrazione Trump – dalle questioni energetiche a quelle internazionali – sembra esserci l’incapacità di uscire dalla logica del puro auto-interesse immediato, che ritroviamo in tanti slogan, da “America first” a “Prima gli italiani”.

Il richiamo del “prima noi” – se non addirittura “prima io” – è potente, e non solo per i politici; infatti lo riconosciamo in tanti comportamenti generalizzati, a partire dell’evasione fiscale. Si tratta di pretese sempre più spesso “sdoganate” e dichiarate legittime, che ci conducono nella direzione opposta a quella della coesione e dell’«amicizia sociale». Quanti e quali partiti e candidati resistono ad assecondare o addirittura ad alimentare questa tendenza? Invece quello di cui abbiamo bisogno è costruire spazi di dialogo e di mediazione, recuperare la capacità di articolare differenze e pluralità: pare saggio allora scegliere una classe politica almeno potenzialmente capace di accompagnare questo percorso. A urne chiuse, la nuova legge elettorale obbligherà probabilmente gli eletti a trovare accordi e mediazioni: è bene che cooperiamo scegliendo persone capaci di farlo. La sfida si ripropone anche a livelli più alti: ce ne dimentichiamo spesso, ma se non vogliamo rassegnarci a un progressivo ripiegamento su noi stessi, chi eleggeremo sarà chiamato a partecipare, a nostro nome, al governo della globalizzazione e allo sforzo di riprogettazione della casa comune europea (sull’importanza del “fronte” UE, cfr l’editoriale di G. Riggio nel numero di gennaio). La capacità di dialogo e di mediazione sarà preziosa in questi contesti.

Per queste ragioni abbiamo bisogno di più politica, non di meno. Votare “per realtà” è meno attraente che votare “per entusiasmo” – forse questa è una delle ragioni che rendono difficile ai più giovani pensare di recarsi alle urne –, ma questo non ne sminuisce l’importanza. Anzi sfida la nostra responsabilità e maturità a misurarsi anche con i limiti della democrazia e le sue contraddizioni: ne siamo tutti più che consapevoli, ma la riduzione della partecipazione non farà che esaltarli. Il percorso che questo editoriale vi propone – discernimento di sentimenti ed emozioni, rilettura del passato alla ricerca del “gusto” sperimentato e proiezione verso un orizzonte collettivo di medio-lungo periodo – è uno strumento per esercitare in modo consapevole la responsabilità di votare: non ci sarà una politica adulta senza elettori maturi.